Storie di migrazione tra integrazione e solitudine

Storie di migrazione tra integrazione e solitudine

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Il mese scorso vi abbiamo fatto conoscere la storia della famiglia di Khadija, una delle volontarie per l’insegnamento dell’italiano, di origine pakistana. Il suo racconto ci ha dato spunto per chiedere anche alle nostre allieve di raccontare come abbiano vissuto il loro trasferimento in Italia. Diversi i paesi di provenienza, ma storie personali simili alle spalle: spaesamento causato dal nuovo contesto molto differente dal paese di origine, sensazioni di solitudine e isolamento sociale.

Un lungo viaggio
Quali sono i motivi che spingono una famiglia a cambiare vita, paese, continente? Perché fuggire da casa, lasciando abitazione, lavoro, abitudini e tutte le persone care? “Come mai avete deciso di abbandonare il vostro paese?
È la prima domanda che abbiamo posto alle nostre allieve per capire le loro motivazioni.
Beauty inizia a raccontarsi, un po’ attraverso le poche parole di italiano che conosce e un po’ aiutandosi a gesti. “Sai, in Bangladesh non c’è sicurezza” poi mostra la sua collanina “se hai una cosa così poi arriva uno e…” ci fa vedere il gesto dello strappare via dal collo con forza, per farci capire al volo il concetto. “E spesso anche i bambini.” aggiunge, ripetendo lo stesso movimento. “In che senso anche i bambini? Sono loro a rubare?” le chiediamo interdette. “No, dei malviventi li prendono per chiedere soldi ai genitori” specifica Rahela che la aiuta con la lingua. “Come lo dite in italiano?” Ci guardiamo turbate, realizzando che in Bangladesh una collanina d’oro o un bambino possono essere strappati via da un momento all’altro con la stessa facilità. Non possiamo fare altro che replicare “Rapimenti, si chiamano rapimenti, in Italia succedevano tempo fa, oggi non più” e ci rendiamo conto che stiamo rispondendo noi stesse alla nostra domanda iniziale. Le nostre donne hanno affrontato un lungo viaggio, verso un paese ignoto, con una lingua e una cultura tanto diverse, per scappare da una situazione di precarietà e insicurezza, inseguendo condizioni di vita migliori di quelle che si sono lasciate alle spalle.

Cambio di paese o spaesamento?
La maggior parte di loro ha fatto un percorso molto simile: partite da Bangladesh, Marocco, Tunisia e Pakistan per raggiungere il marito che già da tempo viveva in Italia, attraverso il ricongiungimento familiare. Arrivate qui, si sono subito scontrate con uno degli ostacoli maggiori: la barriera linguistica.
Quando sono arrivata nel 2015 dal Marocco non parlavo l’italiano. I miei figli lo hanno imparato subito a scuola, ma per me è stato più difficile perché stavo a casa” ci riferisce Salha, e trova tutte d’accordo. L’integrazione in effetti avviene in modo più spontaneo per la nuova generazione. I figli, attraverso le attività scolastiche, imparano la lingua più velocemente e possono socializzare con i compagni. Le madri, d’altra parte, a causa delle loro difficoltà legate alla comunicazione rimangono escluse dai colloqui con gli insegnanti, non riescono a stabilire rapporti con altri genitori e non sono nemmeno in grado di dare supporto ai propri figli con i compiti.
Del resto, le nostre allieve si sono trovate in simili difficoltà in tutti gli ambiti della vita quotidiana: dalle cose pratiche come il permesso di soggiorno, alle questioni legate all’abitazione, la scuola o la macchina. “Di tutto si occupava sempre e solo mio marito” aggiunge Kanwal. Perfino per andare alle visite in ospedale durante le loro gravidanze hanno avuto bisogno del supporto.
Io durante il parto ho pagato una persona che stesse con me e facesse da mediatrice, per capire cosa mi dicevano le ostetriche”. Perse, fragili, in balia degli eventi, senza avere il controllo della propria vita, le nostre donne passavano le loro giornate a casa, ad aspettare, mentre la vita dei figli e dei mariti scorreva al di fuori delle mura domestiche.

Un’apertura inaspettata
Nonostante le difficoltà ad inserirsi in una nuova dimensione, stanno comunque scoprendo man mano diversi aspetti positivi. Quello che apprezzano maggiormente è la mentalità più aperta. “In Bangladesh mi sentivo soffocata, passavo le mie giornate ad accudire e a servire gli altri, senza trovare tempo per me stessa.” confessa Beauty, che si è dedicata per anni alla cucina e alla pulizia a casa dei suoceri, mentre il marito cercava di raggiungere una stabilità e un sostentamento dignitoso in Europa. Stessa situazione per Salha, in Marocco. Dai loro racconti si delinea pian piano l’immagine di figure con una vita vincolata dalle rigide regole della tradizione, nonostante i Km che separano questi due paesi. In alcune zone rurali, infatti, le donne non hanno accesso all’istruzione, si occupano dei lavori domestici e agricoli, sposano chi viene designato loro dal padre e dal futuro suocero, poi si mettono al servizio della famiglia dello sposo, hanno sempre la supervisione di qualcuno. “I miei cari mi mancano, è vero, ma qui in Italia comunque mi trovo bene perché mi sento più libera.” conclude Beauty.

Dall’isolamento verso l’integrazione
Dopo diversi anni passati chiuse in casa, per le nostre allieve una nuova ventata di autorealizzazione e socialità arriva proprio attraverso il progetto WAW. Iniziare a frequentare il laboratorio di artigianato di Terra Verde, confrontarsi con altre donne nella stessa situazione, stabilire un rapporto con le insegnanti e le volontarie, ha dato loro l’opportunità di aprirsi, di iniziare a tessere una nuova rete di relazioni personali, di trovare conforto nell’appartenenza a un gruppo. L’acquisizione di tecniche artigianali dunque è solo un tramite attraverso cui le nostre allieve portano a casa anche competenze interpersonali più consolidate, autonomie nuove, autostima e soddisfazione personale, ed un maggiore grado di espressione di se stesse.


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